Una tappa così lunga (in un viaggio che, ricordo, di tappe nemmeno ne dovrebbe avere) ben merita più di un post per raccontarne gli accadimenti esterni ed interni.

E le sensazioni e le emozioni.

Ce ne sarà anche una quarta, perché mentre scrivo mancano ancora circa 1200 miglia per arrivare nel porto di Città del Capo.

Ma prima, una piccola nota stilistica: ho sempre ritenuto sbagliato l’insegnamento che fin dalle elementari ho ascoltato, ed impudentemente dentro di me criticato, di non cominciare mai le frasi con “E”. Né di mettere questa lettera, che da sola vale una parola insieme alla sorella “ED”, dopo un a virgola. Cosa che ho appena fatto, consapevolmente!

Adesso che scrivo per il piacere mio e, spero, anche il vostro, di quell’insegnamento….me ne impippo! A me piace perché ritengo semplifichi di molto il concatenamento logico delle frasi e la lettura. Quindi lo adotto. Matita blu, signora maestra? E vabbè….la libertà non ha prezzo! 😉 Dopo aver letto la punteggiatura di Saramago poi, premio Nobel per la letteratura!

Scrivere e descrivere le sensazioni in maniera convincente penso sia la cosa più difficile senza scadere in banalità e retorica. O descrivere quello che ho visto e vedo tutti i giorni nel suo coerente ed ordinato evolversi e svilupparsi. Eppure c’è una magia che si rinnova tutti i giorni e tutto il giorno. Forse è proprio in questo che risiede una buona parte della bellezza di questo viaggio.

L’avvicinamento all’Equatore è stato il periodo più complicato per ora dal punto di vista della navigazione: posso confermare tutte le pagine e le descrizioni fatte da quanti abbiano navigato e scritto di quel tratto di oceano noto come Pot au noir. La costante è costituita da un caldo umido quasi insopportabile. Ho vissuto in costume da bagno per parecchi giorni di seguito ed alternavo necessariamente ore all’aperto ed ore al coperto perché se da un lato all’interno il caldo era micidiale, fuori il sole ti uccide! Quindi curavo che l’inclinazione dei raggi solari fosse compatibile con quella piccola zona d’ombra costituita dal bimini di poppa per poter stare a godermi di un po’ d’aria, non dico fresca, ma perlomeno respirabile. Ma immancabilmente non mi accorgevo di qualche pezzetto di me che restava esposto al sole più tempo del lecito, regalandomi alcuni quadretti di scottatura quotidiana. Un pezzo di piede o di interno coscia erano le zone preferite dalla mia sbadataggine, da cospargere abbondantemente di doposole una volta rientrato sottocoperta.L’idea di spalmarmi sul corpo perennemente sudato le varie creme protettive che ho a bordo, era contraria a qualsiasi buona volontà… Così ho risposto a buona parte delle lettrici femminili alle quali è sicuramente ed istintivamente venuto in mente di dirmelo, sgridandomi! Vero? 🙂

Ma quando il sole veniva oscurato da qualche nuvola mica si trattava di qualche cumulo nembo gentile. Uno di quei batuffoloni bianchi che costellano il cielo estivo e che ogni tanto ci si diverte a guardare per scoprire il profilo di un amico o di un animale. Macchè! Nel Pot au noir il cielo in 3 minuti poteva chiudersi come un coperchio su un’immensa pentola e cominciare a scaricare caterve d’acqua che nemmeno a Milano quando poi straripa il Seveso.

Dite ai nostri superficiali giornalisti che la dizione “Bomba d’acqua” dovrebbero venirsela a confermare da queste parti e subito la maggior parte di quelle italiane diventerebbero “Petardi” o al massimo “Granate” d’acqua. O viceversa, se le nostre si continuano a chiamarle “bombe”, a quelle che ho subito io potrei ben aggiungere l’aggettivo “Atomiche”. In un caso, per fortuna non sempre con la medesima intensità, ha piovuto per circa venti ore di seguito! E mi trovavo a poche centinaia di miglia dalle coste africane in quei giorni, dove probabilmente nemmeno una goccia è invece caduta su quelle terre desertiche. Misteri della natura

L’attraversamento dell’Equatore è finalmente arrivato mentre già da alcuni giorni avevo cominciato a recuperare in longitudine il meridiano che è considerato il migliore per attraversare i Doldrums (altro nome delle Calme equatoriali, ricordate?). Ovvero il 25° ovest. Per capirci, verso la punta orientale del Brasile con un’inclinazione verso sud tale da pormi in rotta per Salvador de Bahia, più o meno.

Sembra una rotta assurda e molti me lo hanno scritto; in realtà è la rotta classica se si vuole arrivare al Capo di Buona Speranza senza aver dovuto risalire di bolina i costanti venti da sud che si incontrano a longitudini più orientali: quelli determinati dal cosiddetto Anticiclone di Sant’Elena e che coprono una zona immensa di oceano più o meno dal Capo di Buona Speranza fin sopra all’equatore. Comunque me ne sono capitate di giornate di bolina! Giornate intere, non orette o pomeriggi di piacevole veleggiata con amici. Proviamo allora a descrivere questo.

Come si sa cercare di risalire il vento in termini “nostri” si dice “navigare di bolina”. Sempre per i meno avvezzi – mi perdonino stavolta i puristi che non hanno difficoltà a leggere i termini tecnici – si sappia che quando si decide questo tipo di navigazione succedono subito dei fenomeni fisici particolarmente interessanti. Il primo è che il vento che ha uno stato diciamo X a barca ferma, pur restando immutato d’intensità “apparentemente” invece aumenta quando ci si dirige verso. Verso nel senso di versus cioè contro.

Il secondo fenomeno è determinato dal comportamento delle vele che, per come sono studiate e tagliate, smettono di spingere la barca bensì cominciano a tirarla! Strano no? Fidatevi è così e non ho voglia di scendere in spiegazioni troppo tecniche.

Il terzo fenomeno è, come noto, la barca che si inclina sul lato sottovento, di tanti più gradi quanto è maggiore l’intensità del vento.

Ultimo fenomeno immediatamente apprezzabile è dato dal mare che, a causa del suo “moto ondoso” coerente con la direzione del vento, diviene anch’esso apparentemente più cattivo e la barca ci salta letteralmente sopra sbattendo più o meno violentemente al ricadere nell’incavo per ogni cresta superata. E a parte il rumore piuttosto impressionante, la prua della barca molto spesso si infila nella cresta dell’onda successiva prima di esserne completamente riuscita, come una persona che stia annegando e cerchi disperatamente l’aria, a riemergere.

Ed è allora che qualche centinaio di litri d’acqua invadono l’intera coperta della barca e una buona percentuale di questa ti arriva giustamente in faccia con la forza di un paio di schiaffoni…. che non diventano mai dispari. Moltiplicate questa descrizione per migliaia e migliaia di onde, per giorni e notti, e capite perché….di bolina ci si diverte sì, ma per davvero breve tempo! Di sicuro non ci si viaggia per qualche migliaio di miglia! E dall’Equatore al Capo ce ne sono esattamente 2.850 andando dritti. Fatevi il calcolo considerando le centinaia di bordi che avrei dovuto fare…

L’ultimo fenomeno degno di essere ricordato navigando di bolina, è quello rappresentato dalla presso chè totale impossibilità di fare qualunque cosa a bordo, compreso lavarsi e cucinare. Quindi in definitiva: ben venga la rotta “Brasiliana”!

L’enorme “curva” che si comincia a percorrere, cominciando ad abbandonare l’ovest per cominciare il sudovest e poi il sud pieno, perché prima o poi la direzione per Capetown bisogna pur prenderla, io l’ho dunque cominciata a percorrere più o meno quando ho raggiunto queste coordinate: 6°50’ S ; 25°60’ W. E lì per fortuna il Pot au noir era finalmente superato. Mi toccherà ancora al ritorno ma a quel punto saran passati talmente tanti giorni che me ne sarò sicuramente dimenticato.

Osservo che molto poca vita in mare si è mostrata nell’Atlantico del Sud. Tanto era uno spettacolo quotidiano di delfini e molte altre specie di animali del mare e del cielo da La Rochelle fino a poco prima di arrivare a Capoverde, quanto desolante da questo punto di vista è stata la superficie del mare una volta superato l’Equatore: come fossero due oceani diversi che meriterebbero nomi diversi e non soltanto Atlantico del nord e del sud.

Eccezion fatta per i pesci volanti….

🙂 Segue, a presto